“Decisi che dovevo fare un gesto clamoroso e chiesi a ogni persona presente nella comunità di darmi un oggetto che rappresentasse Stella”
“Io cammino per Stella”. Bisogna avere una motivazione per intraprendere un pellegrinaggio e questa è quella che ha spinto Carlo Arrigone a sperimentarsi come ‘Uno psicoanalista sul Cammino di Santiago’. Perché è questo il titolo del suo ultimo scritto (Odon edizioni), sbarcato nelle librerie a fine aprile. Arrigone è cofondatore dei Centri Artemisia per donne e madri in disagio e vittime di violenza, e dei Centri Snodi per il trattamento del disturbo borderline di personalità.
Nove strutture in totale tra la Lombardia e il Piemonte, dove sono stati ospitati più di 1.500 donne e minori.
“Una di queste ragazze era Stella che, diventata maggiorenne, mi chiese di essere dimessa- racconta lo psicoanalista- e fui costretto ad accettare. Il giorno successivo, però, la polizia di Milano mi chiamò per dirmi che questa giovane donna si era suicidata sotto un treno metropolitano. Fu un evento scioccante per la comunità. Sia le operatrici che le ospiti rimasero traumatizzate, io compreso. Stavamo tutti male, molte collaboratrici andarono via, e il malessere nel tempo diventò una specie di stato di depressione collettiva da cui non si riusciva a venire fuori”. A distanza di 11 mesi Arrigone fece una scelta: “Decisi che dovevo fare un gesto clamoroso e chiesi a ogni persona presente nella comunità di darmi un oggetto che rappresentasse Stella. Li avrei portati tutti con me e lasciati in alcuni punti simbolici lungo il Cammino di Santiago”
Una partenza improvvisa la sua, che “non venne ben accolta da tutti. Arrivato in Francia, vicino al confine con i Pirenei- prosegue lo psicoanalista- decisi di attaccare sullo zaino la scritta ‘Io cammino per Stella’ con la sua foto. Son partito da qui”. Il protagonista di questo viaggio certamente non è uno sportivo e le difficoltà le ha sentite subito, anche perché la prima tappa è molto impegnativa. “Ogni giorno percorrevo dai 20 ai 25 km. Dopo Pamplona ho raggiunto il primo luogo simbolico, Alto del Pérdon, una statua costruita negli anni ’80 e situata in cima a una montagna da cui si vede tutto il tragitto fatto e quello che verrà. Uno sguardo aperto sul mondo, lì ho lasciato i primi oggetti: alcuni scritti e delle foto”.
Sul cammino c’è gente proveniente da tutto il mondo e la lingua parlata è universale. “Trascorrendo poi una sera con un nuovo amico a Logroño- ricorda Arrigone- alla domanda del perché mi trovassi lì, gli ho riassunto la mia vita professionale, dalla nascita delle comunità alle occasioni che ci hanno permesso di resistere alle tante difficoltà incontrate. Mi sono reso conto che nel corso di quei giorni di marcia avevo messo insieme, come tanti flash, diversi episodi degli ultimi 10 anni della mia vita. Interventi terapeutici anche particolari, come il caso di una ragazzina molto aggressiva e forte fisicamente, che un giorno si rasò i capelli. Io, per farle capire che non mi scandalizzavo, me li rasai a mia volta”
Sul cammino lo scrittore ha ripensato al suo modo di fare terapia: “Quando si lavora in comunità non c’è il solito setting che ti protegge- spiega Arrigone- stare in comunità vuol dire essere in relazione per ore. Sono un pellegrino che cammina, ma prima di tutto sono uno psicoanalista e posso confermare che c’è una grande analogia tra il cammino e l’analisi, perché l’analisi è un cammino durante il quale pensi e ricordi. I pensieri vanno in fila come vogliono, proprio come in un’analisi dove non bisogna fare ragionamenti, perché arrivano ricordi, riflessioni e altri ricordi. Nei 20 giorni a piedi ho fatto un’analisi continua. Camminando piano ero spesso solo, pensavo, ricordavo e ripensavo alle persone incontrate. Era un’affollata solitudine- racconta- perché si è da soli e protagonisti del proprio cammino, nel ripercorrere la propria vita per capirla meglio. Nello stesso tempo non ero solo, mi accompagnavano le persone incontrate nel tragitto e poi avevo con me tutti i doni che dovevo lasciare lungo il percorso”.
Arrigone però doveva elaborare qualcosa di suo: “Non mi sentivo in colpa, ma responsabile di non essere riuscito a risolvere questa situazione. Avevo bisogno di rielaborare, capire e accettare l’estensione della libertà di un’operatrice che decide di non lavorare più con te, di una ragazza che decide di non curarsi. L’estensione estrema della libertà di una giovane donna che decide di suicidarsi”.
“Dovevo rielaborare quella che nel corso dei passi era diventata rabbia verso questa ragazza- ammette lo psicoanalista- che mi aveva ferito e non riuscivo a perdonare. Ho dovuto far passare tanti giorni e percorrere tante salite”. Uno degli ultimi luoghi simbolici del viaggio fu la Cruz di Hierro in cima a una montagna: una croce altissima che all’estremità superiore riporta una croce piccolissima. “È un cumulo di macerie- descrive Arrigone- perché ogni pellegrino lascia un sasso che simbolicamente rappresenta il peso della sua vita che lascia ai piedi della croce. Lì volevo lasciare la foto di questa ragazza e i restanti doni. Sono partito con un’alba soleggiata e sono arrivato con una forte tempesta, come la narrazione biblica del Venerdì Santo. Per la prima volta in vita mia ho creduto di poter morire. Mi stavo assiderando ed ero stanco morto”. Il percorso è stato faticoso, ma negli ultimi chilometri che lo separavano da Santiago ha capito di “aver perdonato me, questa ragazza e le persone che sentivo mi avessero abbandonato. È stato come riprendere tutto”.
Lo psicoanalista ha scritto questo libro per aiutare chi non è riuscito a parlare del trauma, e quindi ad affrontare la tragedia vissuta. “Negli addetti ai lavori il trauma è più forte- aggiunge- sembrerà paradossale ma è stato molto più facile parlarne con le ragazze, che non con le persone che lavorano in comunità. Abbiamo un grande difetto, pensiamo che gli altri siano i malati da curare, la verità è che nella relazione ci si cura a vicenda. Un anno e mezzo dopo aver intrapreso il cammino ho avuto un ictus, proprio qualche giorno dopo l’avvio della zona rossa a Codogno, dove ho una comunità, e sono stato operato al cervello. Sono stato un mese e mezzo in ospedale e tra i messaggi ricevuti c’era quello di una ragazza, molto silenziosa, che mi scriveva: ‘Tu che ci hai aiutato tante volte, adesso tocca a noi aiutare te’. Il nostro è un rapporto in cui possiamo essere tutti bisognosi di cure, così come capaci di curare. Loro guariscono nella misura in cui- conclude- si accorgono che possono prendersi cura di qualcuno”.
Fonte Agenzia Dire